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cosa si può fare per una persona che SOFFRE di disturbi alimentari? (RIVOLTO A FAMILIARI AMICI E PARENTI)

Come sappiamo bene è molto doloroso vivere quel senso di soffocamento che provocano i sintomi  alimentari, ma vivono grandi sofferenze anche tutte quelle persone che vivono accanto a chi porta il sintomo evidente. Ricevo molte e-mail di amici, fidanzati, mariti, genitori, insegnanti disperati che mi chiedono consiglio su come poter aiutare il proprio caro che rifiuta ogni tipo di aiuto

Per loro qualche consiglio può tornare utile.

In linea generale io credo che sia importante non parlare (con la persona che soffre di sintomi alimentari) di quelli che sono gli oggetti sintomatici delle sue ossessioni, cioè: cibo e corpo.

Perché tramite cibo e corpo vengono comunicati inconsapevolmente messaggi emotivi molto complessi (richieste affettive, colpe, rabbia, ecc), che in assenza di un mediatore competente in materia vengono fraintesi o interpretati secondo l’umore del momento, creando forti litigi.

Va ricordato infatti che chi soffre di un disagio alimentare pensa al cibo e al proprio corpo solo da un punto di vista emotivo e non razionale, mentre chi non ha questo disturbo ovviamente parla del corpo in modo razionale, secondo il comune buon senso medico ed estetico, e questi due livelli interpretativi sono opposti. Sul piano emotivo infatti, a differenza del livello razionale, non viene desiderata una bellezza sana o una condizione di benessere, ma il contrario. Cioè può esserci il desiderio di apparire malata, di essere visibilmente sottopeso o comunque non in salute. E’ un fenomeno peraltro già noto nelle tendenze di moda dell’abbigliamento, in cui i movimenti giovanili controcorrente usano codici negativi (teschi, strappi, ecc), per comunicare la loro rabbia e delusione, non riuscendo a tradurla in parole dialettiche e parlarne in modo adulto.

Dunque un confronto di desideri (quello razionale del genitore contro quello emotivo della persona ammalata) non porta a nulla di utile, anzi allontana le due generazioni, ognuna convinta dell’incapacità dell’altra di ascoltare le proprie ragioni, e crea continui litigi, di solito ad ogni pasto ed ogni volta che si parla di corpo, abiti, taglie, o che si rimarca la magrezza eccessiva sperando che la figlia/o ammetta l’esistenza del problema.

Dunque è bene, dicevo, evitare di parlare di cibo e corpo, non imporre un certo corpo o un certo cibo, ma spostare la discussione su altri temi: in particolare sugli sbalzi umorali che inevitabilmente saranno presenti in chi soffre di un sintomo alimentare. Parlare dei cambi d’umore, cercare di comprenderli, di interrogare quelli invece del corpo.

Perché se il corpo è pensato come intoccabile (come un feticcio sacro che la persona riesce a controllare e a piegare al suo ideale anoressico, almeno per un periodo di tempo iniziale), l’umore invece è ciò che certamente sfugge al suo controllo, gli fa fare e dire cose di cui poi si pente, provando vergogna e senso di colpa. Su questo tema vale la pena portare la conversazione, alla ricerca di una alleanza per risolvere questo problema. Convincere a parlare con uno psicologo per il problema dell’umore (e dei suoi effetti devastanti nei rapporti con genitori, amiche, fidanzati, colleghi, ecc), può essere un buon modo per far iniziare una cura, aggirando il timore dell’argomento corpo e cibo (cioè aggirando il timore che una cura faccia “ingrassare”, per dirla come la pensa una ragazza anoressico-bulimica).

Inoltre la persona vicina a chi soffre di disturbi alimentari può dare affetto e sostegno, ma non diventando la spalla su cui piangere in ogni istante, perché in questo modo chi soffre confonderebbe questo aiuto con una vera cura che deve essere sempre portata affidata ad un professionista specializzato in questa stessa patologia, senza inventarsi cure o diete fai da te.
Inoltre non va sminuito o deriso il dolore di quella persona.

Infine, se anche la persona che ha il sintomo alimentare non lo ammette e proprio non si vuole curare, neanche per motivi terzi (sbalzi d’umore, sensi di colpa, ecc), il genitore può comunque chiedere una propria consulenza, in cui andare senza la figlia/o, per farsi consigliare e aiutare a capire cosa cambiare nel quotidiano: nei dialoghi e nei comportamenti, al fine di far crescere nella figlia/o una domanda d’aiuto fino lì assente.
ChiaraSole 

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